BACCINELLO. È una storia che si perde nel tempo, milioni di anni fa. Una storia che ha come centro e non come sfondo Baccinello, borgo del comune di Scansano che si è sviluppato intorno alla sua miniera di lignite che ha richiamato uomini e famiglie intere da paesi, province e regioni diverse, di solito spinti dal bisogno. Persone che hanno fatto crescere Baccinello, conosciuto in tutta la Maremma per il suo pane e per “Sandrone”, il vero protagonista di questa storia che comincia circa 10 milioni di anni fa, quando la Maremma così come la conosciamo oggi non esisteva, quando il mar Tirreno e l’Adriatico non erano separati dalle terre emerse, quando al posto di questa terra c’erano solo isole e arcipelaghi.
Uno al sud, dove oggi c’è il Gargano, l’altro più a nord, dove oggi c’è la Toscana.
Nella grotta con il naso all’insù
Oggi a Baccinello, sul muro del centro didattico, la prima immagine che si incontra è quella del murale realizzato dall’artista senese Francesco Del Casino. Murale che rappresenta una delle foto scattate da Antonio Ferrari, il primo fotografo ad essere entrato nella miniera quando fu trovato lo scheletro. Ci sono il paleontologo Johannes Hürzeler, l’ingegner Minucci e Giovanni Lorenz, allievo del professore di Basilea nel cunicolo della miniera dentro al quale, sulla volta, è stata fatta una scoperta rimasta unica al mondo: lo scheletro intero dell’Oreopithecus bambolii, un ominide che abitava “l’isola di Maremma” quasi dieci milioni di anni fa.
Hürzeler, aveva aspettato quel momento da anni: il 2 agosto 1958 fu chiamato, appena sveglio, dai minatori che alle 2 del mattino avevano fatto la scoperta destinata a cambiare il corso della storia degli studi sull’evoluzione umana. E ancora oggi, grazie all’impegno di Lorenzo Rook, professore ordinario del Dipartimento di Scienze della Terra che all’ominide di Baccinello ha dedicato la sua tesi di laurea negli anni ’80, continua ancora a riservare sorprese dopo sorprese.
Tonino e quello scatto diventato immortale
I flash delle macchine fotografiche erano alimentati a lampade. E al contatto con il grisou poteva scatenarsi l’inferno. Tonino Ferrari, nel 1958, era un giovane cronista che lavorava per “Il Paese”, organo del Pci. Il lavoro del giornalista, come lo intendeva lui, era quello romantico, quello nel quale si dovevano consumare le suole delle scarpe. Ma Ferrari aveva un’altra grandissima passione, quella per la fotografia.
È stato lui il primo e unico fotografo ad entrare nella cava. E di quel giorno memorabile, oltre alle immagini che furono pubblicate anche sul tabloid inglese “Life”, restano due file scritti per i suoi nipoti. Affinché sapessero cosa aveva fatto il loro nonno.
Era un’ estate torrida quella del 1958 quando ad agosto ci dissero che a Baccinello degli scienziati stavano cercando tracce di vita primitiva nella campagna e nella piccola miniera.
Era tanto che non c’ erano notizie interessanti e tutti i giorni facevamo fatica a riempire il giornale.
Il Civinini decise di andare. Lavoravamo per “Il Paese” di Roma, che era del Partito comunista e non avendo noi mezzi di trasporto propri, fu il Pci a fornirci un’auto con un autista, a patto che si portasse con noi il corrispondente dell’ Unità Enzo Giorgetti. A Baccinello trovammo due antropologi svizzeri, il professor prof. Hürzeler e il dr.Lorenz, suo assistente. Erano diversi giorni che lavoravano senza grandi risultati: avevano trovato tracce di un piccolo cavallo con lo zoccolo “aperto” come le bestie vaccine. Un po’ delusi, ce ne andammo, con l’ accordo che, se ci fosse stato qualcosa di nuovo, ci avrebbero avvertito.
Dopo pochi giorni ci telefonarono tutti eccitati, perché un minatore aveva trovato lo scheletro di un ominide che, grossomodo, doveva essere l’anello di congiunzione fra l’uomo e la scimmia. Con il solito mezzo, ci recammo subito a Baccinello. Trovammo i due scienziati impazienti di portarci in miniera: ci presentarono l’ingegner Minucci, direttore della miniera. Ci dettero un casco con una luce sopra e ci misero su un vagoncino senza sponde detto “piattina”: il carrello, legato ad una corda, sarebbe stato calato in una galleria molto, ma molto ripida e, raggiunto il piano, si sarebbe fermato. Noi, a quel punto, dovevamo scendere e il carrello sarebbe stato ritirato in superficie. Nel carrello, poco più lungo di un metro, io stavo davanti e mi tenevo ai bordi della “piattina”, Enzo dietro, in una specie di abbraccio, si teneva a me.
«Giù la testa!»: gridavo quando la galleria era troppo bassa e ci sdraiavamo indietro.
Arrivati in una galleria più ampia, tre metri circa, priva di luce, scendemmo in attesa degli altri. Mentre commentavamo la sicurezza degli impianti, in una pausa, nel silenzio, entrambi sentimmo uno scricchiolio sinistro venire dall’alto: con le lampade del casco vedemmo che la causa del rumore erano i tronchi di albero messi a sorreggere la volta della galleria. Al vedere tali sostegni piegati e alcuni tronchi schiantati e scricchiolanti, ci mancò poco che ci venisse un infarto! Enzo cominciò a dire che non voleva morire, perchè aveva moglie e due figlie ed io, per consolarlo, facevo il duro: ero terrorizzato quanto lui, all’ idea che avevamo sopra di noi, parecchie decine di metri di terra. Arrivato l’ ingegner Minucci, ridendo, ci disse: «Non ve lo avevo detto che in tutte le miniere è così?». Allora io rivolto ad Enzo: «Ma non te lo avevo detto che non era pericoloso?». Non reagì, era ancora sotto choc.
La foto di Ferrari sulla stampa internazionale
Ferrari, nel 1958, scattava le sue foto con un’Agfa Silette che montava un flash a lampada. Il direttore della cava segnalò subito che nell’aria c’era un po’ di grisou e chiese se il flash facesse scintille. «Non ne ho idea, sa è un po’ vecchiotto», rispose Tonino e Minucci decise che fosse meglio allontanarsi.
Accompagnato da un minatore, il cronista del Paese si trovò sotto la volta della galleria dove c’era lo scheletro di Sandrone.
Il minatore che aveva trovato le ossa mi accompagnò all’avanzamento, passando per dei cunicoli: in certi punti andavamo carponi. «Non si preoccupi, non c’è pericolo», diceva, ma anche lui se ne andò. Non ero mica tanto tranquillo: ero tutto sudato, ma non sapevo se dipendesse dall’aver faticato per raggiungere il posto o per la preoccupazione di accendere il flash. Comunque ora c’ ero e dovevo procedere. Lo scheletrino era nella volta della galleria ad un’altezza di un metro e mezzo: ci sarebbe voluto un grandangolare, che naturalmente non avevo, anche perché la macchina non aveva l’ottica intercambiabile. Sdraiato sul carbone, supino, riuscii a vedere tutte le ossa; stringendo i denti e a occhi chiusi accesi il flash. Per fortuna andò tutto bene e quel vecchio flash continuò ad accompagnarmi ancora a lungo. In attesa di essere raggiunto dagli altri, eravamo d’ accordo dopo una decina di minuti, mi feci una foto con l’autoscatto; scattai un po’ di foto a tutti gli altri e ritornammo in superficie.
Fuori, nel frattempo, era arrivato il reporter dell’Ansa e, non dando importanza alla cosa, gli dissi che sarebbe potuto andare a fare il servizio senza grossi problemi: scendere con la ”piattina”, sentire le travi che scricchiolavano, raggiungere l’avanzamento carponi e, anche peggio, la storia del grisou, lo convinsero a non fare il servizio.
Una notizia da prima pagina
Erano altri tempi, quelli vissuti da Ferrari. Tempi nei quali giornali come Il Paese, che ricevette subito le foto scattate nella cava, non si rendevano conto dello scoop che avevano tra le mani. La notizia uscì molti giorni più tardi su “Paese sera”.
Ero al mare, un giorno di festa: c’era Pascia, lo strillone, che urlava l’ edizione straordinaria del ritrovamento dell’uomo che era anello di congiunzione tra l’essere umano e la scimmia. In poco tempo tutto il mondo parlava dell’avvenimento: tutte le pagine erano piene di mie foto e anche il mio nome appariva da tutte le parti. Ero più che appagato, non avrei potuto chiedere di più: non avevo pensato che avrebbe potuto essere fonte di reddito. Guadagnavo pochissimo e avevo una situazione economica familiare drammatica. Dopo l’uscita del giornale, cominciarono ad arrivare giornalisti, prima quelli italiani, poi gli stranieri: tutti mi cercavano, con mio grande imbarazzo per via della mia inesperienza e della mia giovane età.
Non avevo una camera oscura e stampavo le foto in bagno, di notte, quando i miei andavano a letto. Poi durante il giorno le vendevo ai giornali. Anche le telefonate dall’estero che ricevevo, erano fonte di imbarazzo, perché io sapevo parlare solo l’italiano, così come quelli della redazione. Una telefonata, fra le ultime, mi mise in agitazione: si trattava della più grande rivista al mondo, Life. Avrebbero inviato un fotoreporter per parlare con me: dovevo portare tutto quello che avevo da fargli vedere. Non avevo mezzi di trasporto, quindi chiesi a Vittorio Donatelli del Tirreno, se mi portava all’ appuntamento; anche lui era a piedi, però poteva farsi prestare una Vespa. E così fu. Davanti al grande fotografo ero emozionato: tolse da una delle sue Leica (la macchina che sognavo da sempre) l’obiettivo e si mise a guardare le negative.
Mi chiese, dandomi del “lei”: «Le ha fatte con quella?», indicando la Silette. Alla mia affermazione, non riuscì a nascondere una lieve meraviglia: non era rivolta alle foto, bensì alle negative. Pensai che ormai le foto le avevo vendute a tutti, perciò si poteva fare. Mi offrì quindicimila lire ciascuna ma rifiutai perché era poco. Allora mi offrì novantamila lire per tutte: accettai immediatamente, ma subito dopo mi accorsi che mi aveva dato le quindicimila lire che avevo rifiutato. L’ esperto giornalista aveva capito che avevo bisogno di soldi e che novantamila lire avrebbero avuto effetto. Le negative in questione erano sei. Comunque a quei tempi erano cifre importanti. Tutti i fotografi che erano giunti non poterono fare le foto, perché l’ominide era stato “ingessato” per portarlo via. Il giorno dell’uscita dalla miniera c’erano decine di fotografi; molti di questi ultimi avevano il timore di fare tardi, perché poi dovevano trasmettere le foto alle redazioni. Uno di loro, di un grande giornale, mi disse: «Vai a dire al prof. Hürzeler se lo porta fuori prima». Poi, con ironia: «Visto che sei l’unico che conta qui!” Ci andai e poco dopo uscii con il professore e l’ ominide ingessato; mandai al prof. Hürzeler le foto scattate che sono tuttora esposte al museo di Basilea in Svizzera. È esposto anche il certificato “di nascita”, redatto dal professore e firmato dai testimoni di quel giorno: ovviamente spicca anche la mia firma. Da tutta l’operazione ricavai un milione e trentamila lire. Come ho già detto, la situazione familiare era tale che di quella cifra, per me, spesi millecinquecento lire per una camicia a quadretti bianchi e rossi.
Uno scheletro di 10 milioni di anni fa
Basta andare al Museo di storia naturale della Maremma, dove una sala è interamente dedicata a questa sensazionale scoperta, per trovarsi di fronte alla rappresentazione geografica della Maremma prima della Maremma. Quando le terre emerse erano poco più che isolette abitate da qualche specie animale di taglia non troppo pretenziosa: topi, ghiri, toporagni, antilopi di piccole dimensioni. Erbivori e roditori, soprattutto.
«Il territorio su cui sorge Baccinello, la zona di Cinigiano, quella delle Trasubbie – spiega il professor Rook – ci permettono di leggere una storia che ha milioni di anni proprio grazie allo studio delle stratificazioni. Sono archivi ricchi di informazioni». Informazioni che si sovrappongono, che si confondono l’una nell’altra: quella della miniera ad esempio, la cui storia risale al 1920, quando entrò in funzione. La storia della gente, del lavoro, della fatica e delle ore passate a scavare ed estrarre lignite dai cunicoli.
«Ed è proprio la lignite, che oltre al valore economico ne ha anche uno scientifico, a raccontarci quali fossero gli organismi presenti 7-8 milioni di anni fa in questa zona della Maremma – aggiunge il ricercatore – perché è proprio in quel materiale che si trovano i fossili degli organismi viventi allora».
Fino al 2 agosto 1958, Johannes Hürzeler, era riuscito a trovare frammenti di scheletro di un ominide che però non poteva ricostruire completamente. Quando ormai i fondi per la sua ricerca erano finiti e lui aveva già caricato le valigie sull’auto che lo avrebbe riportato a Basilea, la miniera fece al paleontologo – e a tutti gli studiosi da allora in avanti – il regalo più grande: uno scheletro intero, che ha rivoluzionato la storia dell’evoluzione dell’uomo.
Quasi 10 milioni di anni fa, in quella che sarebbe diventata la Maremma viveva un Oreopithecus, una scimmia antropomorfa che estinta quando l’Appennino ha cominciato ad emergere delineando la geografia della penisola italiana che conosciamo oggi, e dall’Europa sono arrivati i primi carnivori, come iene o tigri dai denti a sciabola, i cavalli e i primi rinoceronti. «Quando la competizione ecologica – aggiunge il prof. Rook – è diventata svantaggiosa per le specie abituate a vivere sull’isola».
Sandrone o Sandrona?
Il capoturno, quando si trovò di fronte allo scheletro di Oreopiteco, fermò i minatori che volevano proseguire con gli scavi, per consegnare quel tesoro incommensurabile nelle mani di Hürzeler, che si rimise subito al lavoro. «Da quel momento in poi è stato possibile confrontare tutti i frammenti di scheletro che nel corso degli anni erano stati ritrovati – aggiunge Rook – e avere finalmente un’idea precisa dell’aspetto dell’ominide».
Era bipede, aveva le zampe corte e camminava con andatura incerta. La sua testa era piccola e aveva due occhi grandi. Insomma, Sandrone non era certo il ritratto della bellezza, almeno non di quella che si sarebbe poi sviluppata con gli etruschi.
«Si nutriva soprattutto di bacche e foglie – spiega il ricercatore – Alto un metro e dieci, Sandrone aveva dei canini ben sviluppati che ci fa ritenere che si trattasse di un maschio». Negli ominidi infatti, il dimorfismo sessuale non è troppo evidente se non appunto per quanto riguarda la dentatura. Sandrone non è mai stato imparentato con i nostri più diretti antenati, ma è uno degli ultimi rappresentanti di un gruppo di scimmie antropomorfe che nel Miocene superiore erano diffuse in Europa e Asia».
Un centro studi internazionale
Oggi, la scoperta dell’Oreopithecus, ha fatto diventare Baccinello uno dei centri di studi internazionali che continua ad attirare ricercatori da tutto il mondo. L’intero borgo, grazie all’impegno di Sergio Fontani, che ha fondato l’associazione culturale Miniera e ha realizzato, insieme al padre minatore il plastico della vecchia miniera della Co.Mi.Ba, sta portando avanti tante iniziative insieme alla Pro loco per la valorizzazione di quella scoperta sensazionale.
L’esemplare, oggi conservato presso il Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze, è ormai una superstar: a lui e alla sua scoperta, alla vita dei minatori e alla storia del borgo, la regista romana Lucilla Salimei ha dedicato il film Miniera, che è stato proiettato di nuovo nel borgo durante i festeggiamenti di Santa Barbara.
Ora, grazie ai fondi del Pnrr, l’Università di Firenze, partecipando al Centro Nazionale per la Biodiversità, comincerà una serie di studi sulla zona delle Trasubbie per tracciare il percorso fatto dal territorio e dai suoi ecosistemi da 10 milioni di anni fa fino a oggi. Visto quello che successe nel ’58, c’è da aspettarsi che la terra, questa volta, possa regalare di nuovo agli studiosi un’altra grandissima gioia come la scoperta di Sandrone.
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Redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l'ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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