GROSSETO. Non è colpa del clima. Non è colpa dei rincari. È colpa di entrambi e non solo di loro. La resa della raccolta del grano in questo 2023 dipende da molti fattori e tutti giocano a sfavore degli agricoltori della Maremma, se non di tutta Italia.
Confrontandosi con Claudio Capecchi (presidente Cia agricoltori Grosseto) e con Enrico Rabazzi (direttore dell’associazione di categoria), il panorama cerealicolo maremmano e toscano assume dei contorni inquietanti. Forse alcuni agricoltori potranno salvarsi con gli accordi di filiera, per altri servirà un intervento del governo. Ma qualcosa, secondo Cia agricoltori, deve essere fatto: sono a rischio migliaia di aziende.
A livello nazionale l’ultima semina ha visto aumentare i campi coltivati a grano tenero e orzo, il grano duro ha subito una lieve flessione. Se il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e analisi dell’economia agraria) parla di un aumento delle superfici coltivate a grano, l’investimento degli agricoltori non è stato premiato, né con la produzione né con il prezzo.
Spinti dalle conseguenze del conflitto in Ucraina e da un possibile ricavo che invogliava alla semina, gli agricoltori erano tornati (alcuni anche dopo anni) a coltivare grano.
Le semine tardive tra gennaio e marzo hanno poi incontrato le piogge di maggio e giugno che hanno creato un habitat fertile per malattie come ruggine e fusariosi. Due delle patologie che più hanno inciso sulla raccolta. In Maremma il calo della produttività rispetto al 2022 è stimato tra il 19 e il 50%. Una forbice ampia, che arriva a tagliare qualsiasi speranza.
I numeri del grano: c’è chi non ha proprio seminato
Dagli inizi degli anni 2000, i cosiddetti “anni d’oro” per Rabazzi e Capecchi, la produzione di grano è calata enormemente. È praticamente “sparita” una fetta di 100-116mila ettari di superficie coltivata.
Prendendo come riferimento il grano duro, dopo il calo del 2022 (47.900 ettari coltivati in Toscana: fonti Ismea), nel 2023 la superficie coltivata era tornata ai livelli del 2019: sopra i 60mila ettari. Nel 2022 le province capofila erano Grosseto, Siena e Pisa, un dato probabilmente destinato a ripetersi anche questo 2023.
Quello che però più risalta è il numero dei territori seminativi non coltivati. Mentre nel 2022 gli ettari lasciati incolti erano 47.900, nel 2023 sono 72.372, oltre il 50% in più. «Questo significa che per il 2023, nonostante il prezzo del grano fosse buono, molti hanno scelto di non coltivare affatto – dice Rabazzi – Non hanno coltivato né avena, né orzo, né girasole. Principalmente per due motivi: il clima impazzito e, soprattutto, gli alti costi che hanno fermato le aziende. E se non si inverte la tendenza rischiamo che, nel 2024, i numeri siano ancora più alti».
Il problema è grave tanto in pianura che in collina. «Alcuni allevatori utilizzano il grano per alimentare gli animali e una coltivazione a grano duro agevola anche la lavorazione del campo per i pascoli che verranno dopo – fa presente Capecchi – Visti i costi, però, anche molti tra gli allevatori hanno scelto di non coltivarlo. In collina, dove non si può fare altro, dobbiamo renderci conto che se scompare la coltivazione di cereali, rischia di scomparire anche l’allevamento».
Il prezzo del grano duro è tornato ai livelli pre-crisi, al produttore vengono riconosciuti 280 – 350 euro alla tonnellata. Vanno tolti i costi di trasporto e di stoccaggio (40 -50 euro a tonnellata). Così rimane ben poco, anzi niente, visto che i costi di produzione spesso superano il prezzo riconosciuto: non sarebbero bastati neanche 400 euro alla tonnellata.
Maremma “contro” Italia
La media nazionale della produzione di grano duro si assesta sulle 2,9 -3.2 tonnellate a ettaro. In Toscana è 3.3. In Emilia-Romagna 5.5 – 5.8. Oltre alle dimensioni delle aziende, incide molto anche la qualità e la tipologia dei terreni dove viene coltivato.
«Anche per questo il costo per ettaro è differente – dice Capecchi – i costi saranno differenti tra regioni con produttività e terreni differenti. Dobbiamo pensare strumenti attivi di sostegno agli agricoltori, la politica li dovrebbe mettere in atto se li vuole salvaguardare anche nelle aree collinari».
«Le zone fertili rischiano meno, difficile che rimangano incolte – dicono Rabazzi e Capecchi – si rischia però che le aree meno fertili vengano abbandonate. La produzione così tenderà a diminuire inevitabilmente».
Crolla il prezzo del grano, aumenta quello della pasta
Nell’ultimo periodo, nonostante un crollo dei prezzi del grano, quello della pasta sugli scaffali dei supermercati è cresciuto. «Mentre l’aumento della pasta nel 2022 poteva essere giustificato dalle bollette alle stelle e dell’aumento dei costi, ora – dice Rabazzi – non si capisce come mai la pasta costi sempre di più».
La Cia auspica che sia fatta chiarezza anche sulle importazioni. «Ci dovrebbe essere più controllo – dicono Rabazzi e Capecchi – Quelle dal Canada sono aumentate del 46% rispetto al 2022 (fonte Crea). Le importazioni hanno come fine quello di far crollare il prezzo del grano, ma va sottolineato che sono stati fatti investimenti a un settore agricolo che allo stesso tempo si mette a rischio, esponendolo a pericolose politiche di prezzo».
Lo stop del grano ucraino potrà cambiare qualcosa sui prezzi?
Capecchi e Rabazzi sono d’accordo. «Lo stop delle navi dall’Ucraina può incidere sul prezzo del grano tenero. Ma in Italia arriva per lo più da Francia e Ungheria (dati Istat). Dall’Ucraina ci arrivano soprattutto mais e girasole. Il loro grano tenero va soprattutto verso i paesi africani. Una carenza di grano in Africa potrebbe incidere ancora più sui fenomeni migratori».
Le possibili soluzioni
Come anticipato da Capecchi e Rabazzi, una delle possibili soluzioni alla crisi del mercato del grano è quella di agevolare sempre più contratti di filiera. Una serie di accordi che, con un filo diretto, uniscono produttori di grano a pastifici o trasformatori, riconoscendo prezzi equi che non lasciano soli gli agricoltori.
La raccolta firme “Salviamo il grano” promossa da Cia va in questa direzione. «Tutti coltivano perché sperano in un prezzo che poi dia loro soddisfazione. Con gli accordi di filiera si stabilisce un prezzo minimo», dicono Rabazzi e Capecchi.
Il recupero delle terre non coltivate invece, non convince. «A meno che non si dia una mano a tenere in piedi le superfici che vengono di nuovo seminate, non è possibile chiedere agli agricoltori di investire con la coscienza che “produrranno in perdita” – dicono Capecchi e Rabazzi – serviranno sicuramente sostegni più adeguati, considerando che i cereali, anche al settore zootecnico, servono».
Un sostegno diretto alla (mancata) produzione, almeno per il breve termine, sembra quindi un’ulteriore chiave per la sopravvivenza di molte aziende e il ritorno alla coltivazione di un prodotto come il grano. Troppo spesso sotto la lente della speculazione con l’oscillazione del prezzo.
Considerato che coltivare le campagne significa allo stesso tempo salvare aziende e paesaggio, salvare tutti da incendi e dissesto idrogeologico, trovare una soluzione è un obiettivo per il quale Cia agricoltori si sta battendo, cercando di sensibilizzare il governo a qualsiasi livello.
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Nato a Grosseto, pare abbia scelto quasi da subito di fare l’astronauta, poi qualcosa deve essere cambiato. Pallino fisso, invece, è sempre rimasto quello della scrittura. In redazione mi hanno offerto una sedia che a volte assomiglia all’Apollo 11. Qui scrivo, e scopro. Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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