CASTELL’AZZARA. Rischiavano l’estinzione. E sono state salvate da chi fa un mestiere altrettanto a rischio. Non è solo un gioco di parole. Il Fagiolo borlotto del minatore e il Granturco di Castell’Azzara rischiavano di scomparire e i loro semi sono stati salvati proprio da chi, nella zona amiatina, lavora in agricoltura.
A occuparsi della “missione” è stata la Comunità del cibo e dell’agrobiodiversità dell’Amiata (nata nel 2021), con un progetto finanziato e realizzato insieme all’Università di Pisa.
La Comunità ha giocato un ruolo fondamentale, al suo interno ci sono agricoltori come Loredano D’Alessandro che si sono occupati direttamente della conservazione e della ri-semina (propagazione) delle piante. La presidente della comunità del cibo, Paola Corridori racconta con soddisfazione del risultato raggiunto.
«Siamo riusciti a far riconoscere i semi alla banca del germoplasma, così possono essere conservati. Li abbiamo veramente salvati da un concreto rischio di estinzione – dice orgogliosa Corridori – Le comunità del cibo ruotano intorno alla figura del coltivatore custode. Una figura riconosciuta dalla Regione, che custodisce e preserva le coltivazioni rare. Tutti gli anni ne danno una parte alla banca. Quella che avanza viene riutilizzata, commercializzata e fatta conoscere. Prodotti come la pera picciola hanno seguito percorsi simili».
I semi tramandati come tesori
Nella Comunità del cibo e dell’agrobiodiversità dell’Amiata ci sono 16 aziende tra agricole e artigiane. Si va dal forno che utilizza i prodotti coltivati dagli agricoltori, a società e cooperative. Dentro c’è anche Biocastanea, che si occupa del riutilizzo dei ricci delle castagne. «Siamo una rete che mette insieme diverse realtà – conclude Corridori – così si costruisce una filiera che valorizza le cosiddette agrobiodiversità, inglobando sempre più agricoltori che potranno essere custodi di produzioni uniche. Conservando tutti insieme prodotti unici e ricette della tradizione che altrimenti andrebbero perduti».
La coltivazione spetta agli agricoltori custodi come Loredano D’Alessandro, che ha iniziato con una piccola quantità per poi arrivare a coltivare circa un ettaro di superficie tra granturco di Castell’Azzara e fagiolo borlotto del minatore. «Faccio tutte le operazioni manualmente – racconta Loredano – solo piccole operazioni vengono fatte meccanicamente. Coltivo queste specie da 5-6 anni, prima c’era anche un mio amico che lo faceva. Poi per via dell’altro suo lavoro ha un po’ lasciato – ricorda – Ho ricevuto i semi da persone che li hanno conservati e tramandati come fossero un’eredità».
Il “Granturco papalino”
Il granturco di Castell’Azzara nasce proprio da un ritrovamento fatto da alcuni ereditari. «Glie eredi di un agricoltore locale hanno trovato delle pannocchie di granturco che aveva tenuto da parte – ricorda D’Alessandro – Hanno passato i semi agli amici. Poi sono arrivati in mano a un mio amico che me li ha a sua volta e ho iniziato a coltivarlo».
Utilizzato anche per l’alimentazione del bestiame, insieme alla castagna è rimasto fonte di sostentamento degli amiatini tra il 1700 e la prima metà del 1900, quando venne sostituito da altri cereali come il grano. La coltivazione del granturco venne interrotta quasi del tutto, complice lo spopolamento progressivo della montagna dovuto alla dismissione degli impianti minerari.
Il granturco di Castell’Azzara ha semi disposti in maniera più irregolare, con riflessi che variano dall’oro al rosso e dà origine a una polenta colorita e saporita. «Chi l’ha assaggiata mi ha detto che era buonissima e decisamente differente dalle solite in commercio. Macinata con mulino a pietra e mangiata integrale, è una specialità» dice D’Alessandro. In origine, veniva tagliata a fette, poi passate sulla piastra della stufa economica per farle croccanti. Accompagnate con del formaggio hanno fatto parte per decenni della dieta degli abitanti della montagna.
«Per mantenere la purezza del granturco ho dato il seme anche ad altri agricoltori vicini – precisa – per evitare che venisse impollinato dal polline di altre varietà di mais trasportato dagli insetti impollinatori. Ogni ettaro vengono piantati circa 9.500 semi e anche se serve acqua, se mancasse è abbastanza resistente come varietà».
«Come secondo nome ha “Granturco papalino” perché il seme fu conservato dall’agricoltore Silvio Papalini e dalla sua famiglia, che poi lo ha dato agli altri agricoltori» ricorda D’Alessandro.
Il “Fagiolo albertino”
Il fagiolo borlotto del minatore è stato consegnato a D’Alessandro da un agricoltore molto conosciuto nella zona. «Lo ho ricevuto da Alberto Lazzeri che lo ha coltivato per anni – racconta – anche per questo come secondo nome ha “Fagiolo di albertino“. Me ne dette circa 1 kg, lo conservava come fosse un figlio – ricorda – Sceglieva per la riproduzione solo i baccelli che avevano 7-9 semi. Li teneva dentro ai sacchi senza sgusciarli».
«Mi consegnò il seme e dopo 2-3 anni morì – ricorda – È davvero un dispiacere che sia venuto mancare, manca a molti, e sarebbe stato interessante sapere la storia del fagiolo direttamente da lui».
La pianta è caratteristica, è rampicante e viene solitamente utilizzata una impalcatura fatta di canne per farla sviluppare e coglierne agevolmente i baccelli.
Il fagiolo borlotto del minatore, utilizzato per minestre e zuppe, è buono anche se assaporato semplicemente con un po’ si sale, pepe, olio e aceto. Viene utilizzato come ingrediente del piatto della tradizione amiatina chiamato “minestra con i ceciarelli” che sono realizzati dall’impasto di acqua e farina di grano duro.
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Nato a Grosseto, pare abbia scelto quasi da subito di fare l’astronauta, poi qualcosa deve essere cambiato. Pallino fisso, invece, è sempre rimasto quello della scrittura. In redazione mi hanno offerto una sedia che a volte assomiglia all’Apollo 11. Qui scrivo, e scopro. Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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