GROSSETO. Pantaloni a righe, maglietta a mezze maniche e sguardo rivolto verso il basso. Entra in tribunale accompagnata dalle guardie carcerarie, la 28enne accusata di aver provocato la morte del suo bambino, di soli 2 giorni, sulla nave da crociera sulla quale era imbarcata come lavapiatti.
Si guarda intorno spaesata prima di entrare nella stanza dove incontra i suoi avvocati, Giovanni Di Meglio e Chiara Mancineschi, insieme all’interprete. Dietro di lei, ci sono le due colleghe con le quali divideva la cabina. In lacrime, tutt’e due.
Sono due ragazze, anche loro, di 26 e 28 anni, imbarcate per lavorare e spedire i soldi a casa. Così come Jheansel Pia Salahid Chen, la 28enne accusata di omicidio. Che di bocche da sfamare, nelle Filippine, ne ha sei: padre, madre, sorella, fratello e due nipoti.
La nascita a bordo non prevista
Era incinta, quando si è imbarcata per lavorare come lavapiatti sulla Silver Whisper, ma non pensava di essere così avanti con la gravidanza. Di fronte al giudice per l’udienza preliminare Sergio Compagnucci, la ventottenne ha raccontato una vita attraversata dalla miseria più vera. Dall’ignoranza, dalla disperazione.
Un quadro che è emerso durante l’interrogatorio, al quale la ragazza ha voluto rispondere. La gravidanza, l’avrebbe nascosta per non perdere il lavoro. E quel bambino, al quale ha detto di aver dato un nome, una volta tornata nel suo Paese d’origine avrebbe cercato di darlo al padre. Aveva avuto con il ragazzo una breve relazione, già finita. Ma sarebbe stato una bocca da sfamare in più che lei non si sarebbe potuta permettere.
Si chiamava Tyler, il bambino venuto al mondo il 17 maggio, di mattina, nella cabina della nave che la ragazza condivideva con due colleghe, Dorcas Njuguini Mutundu, originaria del Kenya. 28 anni, difesa dall’avvocato Luca Fabbrucci e Kgothadso Mabel Jasmine Mphela, 26 anni Sudafricana, assistita dall’avvocato Mario Fabbrucci. È stata la donna del Kenya a dare l’allarme al capo del personale e a dire che c’era quel bambino nella cabina.
Era già morto. Avvolto in un asciugamano, nella branda della donna. Branda che veniva chiusa, come le altre due nella cabina, con una tenda per preservare la privacy delle lavoratrici.
Accudito per due giorni prima della tragedia
Come e perché sia morto il piccolo Tyler lo dirà venerdì 24 maggio l’autopsia. Il piccolo, come ha raccontato la mamma al giudice, nei suoi due giorni di vita è stato accudito dalla donna: lavato, pulito, coperto con un asciugamano.
Come pannoloni, Chen ha utilizzato gli assorbenti mestruali, gli unici che aveva. Quando il piccolo è nato, partorito dalla ragazza sola nella sua cabina, la ventottenne ha gettato la placenta nell’inceneritore della nave.
Lavorava come lavapiatti, a bordo, e ogni momento libero che riusciva a ritagliarsi lo dedicava al piccolo. E nell’armadietto della camera, la ventottenne aveva creato una culla di fortuna, per evitare che cadesse quando lei era al lavoro.
Un racconto tragico, quello che la ventottenne ha fatto di fronte al giudice e al sostituto procuratore Giovanni De Marco, che l’ha fermata con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Accusa contestata in concorso anche alle sue due colleghe, che la donna ha difeso a spada tratta, dicendo che erano state zitte rispetto alla nascita del piccolo perché lei le aveva implorate. Per non perdere il lavoro.
Mutundu e Mphela hanno preferito non rispondere alle domande del giudice. Il p, per tutt’e tre, ha chiesto la convalida del fermo e la custodia cautelare in carcere. Il giudice si è riservato la decisione.
L’avvocato della mamma: «Non voleva ucciderlo, è stata una tragedia»
Non c’è stata la volontà di uccidere il piccolo Tyler. Di questo è certo l’avvocato Giovanni Di Meglio. «Credo che tra tutte le ipotesi, quella dell’omicidio colposo mi sembra la più credibile».
Ipotesi che porterebbe a scrivere una storia, almeno dal punto di vita processuale, ben differente. «Sapeva di essere incinta – dice l’avvocato – ma aveva problemi di regolarità del ciclo che andava e veniva e non sapeva a che punto della gravidanza fosse. Era convinta che avrebbe partorito dopo. Ma da quando è nato il bambino, al quale aveva dato un nome, lo aveva accudito, lo aveva nutrito e idratato. Se avesse voluto ucciderlo, avrebbe avuto mille altri modi su quella nave, senza che nessuno se ne accorgesse».
L’udienza, iniziata poco dopo le 15, è finita in serata. Le tre donne, per ora, sono state portate di nuovo al carcere di Sollicciano.
Autore
-
Redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l'ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
Visualizza tutti gli articoli