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A troncamacchia con Alberto Prunetti

Intervista con l’autore di “Amianto”, cresciuto in Maremma, che ha appena dato alle stampe il suo ultimo romanzo per Feltrinelli: l’antifascismo degli ultimi, la letteratura working class e l’incontro con l’ex presidente dell’Uruguay
Alberto Prunetti e il suo ultimo libro
Lo scrittore Alberto Prunetti

FOLLONICA. Troncamacchioni è il titolo del suo ultimo libro pubblicato da Feltrinelli. Un romanzo che dà voce agli ultimi che hanno fatto la storia. È il racconto di uomini e donne nell’Alta Maremma agli albori del fascismo: anarchici e banditi, disertori e comunisti, tipi arruffati che non hanno avuto la fortuna di trovare davanti a sé una strada dritta e spianata, ma sono stati costretti a farsi avanti “a troncamacchioni” – «tra i lecceti gli scopeti i castagneti e i forteti, col cuore in gola e le labbra spaccate». 

Scrittore, traduttore dall’inglese e dallo spagnolo, un passato da pizzaiolo, da sotto-cuoco in una mensa, da stalliere del campo da polo di Punta Ala ma anche da corrispondente per il Manifesto dall’Argentina. MaremmaOggi ha intervistato Alberto Prunetti.

L’internazionalista della letteratura working class

Troncamacchioni
  Troncamacchioni

Spesso nei suoi libri c’è la Maremma. L’ex Ilva di Follonica, le acciaierie di Piombino, i comprensori minerari. Amore o odio? Ma soprattutto, è follonichese o piombinese?

«Sono nato a Piombino e cresciuto a Follonica. Ma fatico a sentirmi legato a un territorio, soprattutto se ci vivo dentro. Mi sento maremmano quando vado in India o in Argentina, a Zurigo o a Parigi. Ma quando sto in Maremma, mi sento cittadino del mondo e assieme straniero in ogni luogo. “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà”, cantavano un tempo i minatori delle Colline Metallifere. Questo modo internazionalista è il modo migliore di vivere in ogni luogo, soprattutto in Maremma. Che è una terra un tempo amara, che si riconosceva in un canto di dannazione e maledizione».

La sua opera è associata alla letteratura Working Class, un’etichetta che lei stesso hai introdotto in Italia, usata soprattutto nelle letterature nordeuropee, dall’Inghilterra alla Svezia.

«Sì, ho creato una corrente italiana di questo filone per dare spazio alla letteratura che parla di classe dentro al racconto, fatta da persone come me, nate in famiglie operaie. Con un background Working Class, come dicono in Inghilterra. Potevo starmene a mangiare le briciole che cascavano dai piani alti dell’editoria, magari infilandomi in un genere, mettendomi in coda. Invece ho pensato che dovevo aprire un sentiero, a troncamacchioni, nel campo delle belle lettere per chi bello non è e neanche troppo “alletterato”, come me».

Su L’indice del libro di gennaio, che è in edicola in questi giorni, c’è una recensione del suo romanzo “Troncamacchioni”, ambientato appunto tra i minatori e i carbonai delle Colline Metallifere, nel triangolo tra Massa Marittima, Prata e Tatti. Il recensore scrive a proposito della sua scrittura: «Il tono sfrontato con cui l’autore guarda e interagisce con la storia è del tutto simile all’atteggiamento che intrattiene con la tradizione letteraria: una familiarità ostentata e persino aggressiva, che prima fagocita gargantuescamente versi celebri e poi li ripropone in salsa Working Class”.

«Sì, è vero, parlo di letteratura alta con la confidenza con cui si parla al bar di calcio. Perché cerco di rovesciare i registri tra l’alto e il basso, sovvertendo i codici. Da qui la mescolanza di tragico e comico, di umorismo e profondità, nelle mie opere di narrativa. Anzi, nel mio lavoro culturale».

Il lavoro culturale

Si riferisce alla sua attività di scrittore spesso con toni materiali, come un lavoro. Un lavoro culturale, riprendendo un’espressione di Luciano Bianciardi. È stato nominato dalla Regione Toscana Scrittore toscano dell’anno 2013 per il suo libro “Amianto” e la sua opera è tradotta in svariate lingue straniere. Quali sono oggi i risultati di questo suo lavoro? 

Mah, potrei parlare delle traduzioni all’estero o dei premi vinti, ma sono cose che fanno tutti gli scrittori. E io fatico a considerarmi alla stregua di questa categoria così narcisista che talvolta mi repelle. Spesso infatti dico che faccio il traduttore e mi nascondo come scrittore. Anche la qualifica di direttore artistico, riferita al Festival di Letteratura Working Class, mi lascia perplesso. È gergo da marketing culturale. Preferisco definirmi “l’assemblatore” del Festival. Faccio insomma un lavoro culturale, che è anche fatica ma ha dei riconoscimenti. 

Ossia?

«Ecco le cose di cui sono fiero: aver infilato sulla copertina di un libro di una delle due più prestigiose case editrici italiane una parola del gergo dei carbonai maremmani: Troncamacchioni; aver mandato sulla copertina di un libro della stessa casa editrice un saldatore (ossia il mi’ babbo); essere tornato a fare inchiesta narrativa in un centro commerciale inglese dove venti anni prima lavoravo facendo le pulizie; aver fatto dare di matto qualche padrone organizzando un festival che ha portato cinque mila persone a marciare accanto a degli operai in lotta in una fabbrica (con tanto di minacce di denuncia e brutti ceffi che mi e ci fotografavano da lontano e ci spiavano coi droni); aver fatto incazzare almeno una persona su cinque di quelli che mi leggono, sperando che aumenti il numero dei lettori per far aumentare il numero di quelli incazzati, che sono i miei lettori preferiti».

Il Festival di Letteratura Working Class di Campi Bisenzio

Parliamo del Festival di Letteratura Working Class, che si svolge a Campi Bisenzio nel presidio sindacale ex Gkn

«Quella è la mia gioia più bella. Un festival in una fabbrica, organizzato da un gruppo di operai in lotta. Senza sponsor, tirato su con sottoscrizioni popolari e cene sociali. Dove gli altri hanno gli istituto di credito, noi abbiamo le tortellate solidali delle cucine Arci che ci aiutano a tirare su i nostri eventi. La disoccupazione è il nostro sponsor, la paura che una fabbrica storicamente legata a un territorio sia costretta a delocalizzare, a spostarsi verso l’Europa dell’est. Per abbracciare quella fabbrica, le abbiamo creato un festival attorno. Nato dal nulla, in una periferia industriale aggredita da logiche speculative e ceffi del padronato che domano gli scioperi con le mazze e i droni, noi abbiamo portato la letteratura. Quella operaia, ovviamente. Ma una letteratura operaia che è letteratura tout court, come quella di Joseph Pontus, che prende per le orecchie Proust e lo porta a sporcarsi di viscere di pesce in un mattatoio».

Alberto Prunetti
Alberto Prunetti

Cosa le ha regalato di bello insomma il suo lavoro culturale?

«Tra le cose belle, aver incontrato Pepe Mujica, ex presidente dell’Uruguay, quando sono andato nel paese australe nel 2022 come ospite straniero alla Fiera del Libro di Montevideo. Mi portarono alla sua fincha – al suo podere – e gli consegnai la traduzione spagnola del mio libro Amianto. Potei stare con lui solo un quarto d’ora. Tre giorni dopo, mentre facevo scalo all’aeroporto di Madrid nel viaggio di ritorno, mi arrivò un messaggio dalla persona che mi aveva accompagnato, un’amica di Pepe Mujica. El Pepe le diceva: «El libro del tano está impresionante. Si está en Montevideo todavía avisame y me lo traes para conversar tranquilos» Ossia: «Il libro di quell’italiano è impressionante. Riportamelo che chiacchieriamo tranquilli». Purtroppo tra me e l’Uruguay c’era una pozza d’acqua chiamata Atlantico, e poi i nostri boschi di macchia mediterranea». 

Alberto Prunetti con Pepe Muijica
Alberto Prunetti con Pepe Muijica nella sua casa in Uruguay

Che attraversi spesso.

«Che attraverso ancora, a troncamaccchia».

Dove nasce questa espressione vernacolare?

«Usata in ambito orale da persone lontane dalle lettere, è ignota ancora alla mappatura della Crusca. Eppure c’è un precedente. Nella memorialistica risorgimentale, Guelfo Guelfi, figura del risorgimento maremmano che accompagno Garibaldi nella sua fuga fino a Cala Martina, dice che Garibaldi «rompeva la macchia col petto come un vecchio cacciatore maremmano». Io ho provato a fare lo stesso, nell’editoria, rovesciandomi nell’alfabeto come un cinghiale».

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