GROSSETO. Ogni giorno fa dei piccoli lavori all’interno della struttura. Tira a lucido le stanze, quando è il suo turno, esce con gli operatori per andare a fare la spesa. Partecipa ai colloqui con gli specialisti, prende i farmaci che le vengono somministrati. E non ha più avuto alcuna crisi psicotica.
Anzi, ha mostrato resipiscenza per la brutale uccisione di sua madre. Una donna alla quale Benedetta Marzocchi voleva molto bene. Ma che in alcuni momenti della sua vita ha visto come il male assoluto, fino ad ucciderla, l’8 giugno 2023, massacrandola di botte.
La nuova vita di Benedetta in clinica
È un processo lampo quello per l’omicidio di Giuseppina De Francesco. Solo tre udienze per decidere il destino della cinquantunenne, arrestata dai carabinieri la mattina successiva al brutale omicidio.
Mercoledì 29 gennaio, nell’aula d’assise del tribunale di Grosseto, di fronte alla presidente Laura di Girolamo, al giudice Marco Bilisari, ai giudici popolari e al pm Giampaolo Melchionna, hanno parlato i testimoni della difesa, chiamati dagli avvocati Enrico de Martino e Giulia Zani del foro di Siena. Lo psichiatra Paolo Iazzetta, direttore della psichiatria di Grosseto e il professor Stefano Ferracuti, professore ordinario di psicopatologia forense alla Sapienza di Roma, che ha seguito Marzocchi fin dall’incidente probatorio.
Benedetta, dopo l’arresto è stata portata nel carcere di Sollicciano, poi trasferita in Psichiatria a Grosseto, prima di essere accolta a Villa Aeoli a Volterra dove sta tuttora seguendo un percorso di cura e riabilitazione.
«Per oltre tre mesi è rimasta ricoverata nel reparto di Psichiatria, ero io il suo referente – ha spiegato in aula il dottor Iazzetta – Ha risposto bene alla terapia farmacologica e anche a quella psicologica. La diagnosi è quella di disturbo bipolare e disturbo di personalità misto ma si era costruita una routine quotidiana già quando era ricoverata in psichiatria. Quello che già allora sperava era di essere trasferita in una struttura come quella in cui si trova ora. Nonostante fosse consapevole di essere sottoposta a una misura cautelare, si è sempre comportata bene».
Iazzetta ha continuato a seguire la cinquantenne anche a Villa Eoli. «All’inizio, quando è arrivata nella struttura di Volterra la signora Marzocchi era timorosa – dice ancora lo psichiatra – Era sodisfatta di come era stata trattata in carcere e anche nel reparto di psichiatria. Ora sta meglio, la terapia è rimasta la stessa, ha seguito un percorso psicologico importante. E ha anche mostrato resipiscenza rispetto all’accaduto. Questo percorso sta andando bene».
L’amore e l’odio verso la madre
Pochi legami affettivi, pochissimi amici, poche visite. Benedetta Marzocchi, cresciuta in una famiglia borghese dove i soldi non hanno mai rappresentato un problema, è stata costretta a diversi trasferimenti nel corso della sua vita. Trasferimenti che non le hanno mai permesso di mettere le radici.
Il disturbo bipolare e quello di personalità l’hanno allontanata dalle relazioni. L’unica che le è rimasta fino alla notte dell’omicidio, è stata quella con la mamma, con la quale aveva apporto quasi simbiotico. «Semplificando al massimo – dice lo psichiatra – era un rapporto di amore-odio. La madre era onnipresente e il rapporto disfunzionale con la donna ne ha certamente aumentato la sua psicosi».
Incapace di intendere e volere, Benedetta Marzocchi non potrà essere condannata. La scelta che la corte d’assise e i giudici popolari dovranno fare è quella sulla misura di sicurezza da applicare alla donna. Che «certamente – ha detto il consulente Ferracuti – non può essere quella degli arresti domiciliari, perché a scatenare la sua psicosi sono stati i rapporti familiari». Con la madre e con il fratello, soprattutto, non con il padre. Ma anche la rems, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza non sembra, agli specialisti, una soluzione adeguata.
«Elaborare tutta la sua vita non è stato e non è tuttora facile – dice ancora Iazzetta – ma a Villa Aeoli sta facendo un percorso di cura che l’ha fatta migliorare tanto. Non ha più avuto episodi clinici dissociativi. Trasferirla in una rems sarebbe deleterio. Le rems sono strutture intasate da lunghe liste di attesa, dove vengono accolti migranti che non parlano la lingua, persone senza fissa dimora che hanno commesso delitti per i quali è stata applicata una misura di sicurezza. Sono circondate da filo spinato e controllate da guardie giurate. Nella struttura dove si trova ora, può fare attività. Vorrebbe lavorare, vorrebbe anche partecipare ai laboratori artigianali. Nonostante sia l’unica donna ospite, si è integrata bene».
Gli esorcismi da bambina e l’isolamento da adulta
È la vita di Benedetta a scorrere brevemente in aula, attraverso le parole di Stefano Ferracuti, professore ordinario di psicopatologia forense alla Sapienza di Roma e consulente della difesa.
Una vita ricostruita per sommi capi, a partire da quando Benedetta e il fratello, da bambini, venivano accompagnati dalla madre da un prete esorcista. «Quando l’ho conosciuta durante l’incidente probatorio – dice il consulente – era in condizioni di semi-stordimento. Ora è sotto controllo, sta migliorando giorno dopo giorno perché non ha motivi di conflittualità con nessuna delle persone che le stanno vicine».
Quello con cui sta cominciando a fare i conti è il senso di colpa per quel che ha fatto. «Benedetta era legata alla mamma – dice ancora il professore – l’unico timore oggi è che un’esagerata consapevolezza di quella che ha detto la possa spingere a farsi del male».
Amore e odio, ancora, nei confronti della mamma. Giuseppina era una donna di campagna, che viveva una spiritualità concreta. «Credeva che il diavolo esistesse davvero – dice il medico – e i suoi figli sono cresciuti con questi input». Benedetta aveva provato a smarcarsi: era andata a studiare a Milano, si era laureata in Giurisprudenza. Aveva cercato di avere una vita normale.
Poi però non è riuscita a lavorare. La malattia si è riaffacciata, lei è tornata in Maremma, è arrivato il Covid, l’isolamento e si è concentrata sulla ristrutturazione della villa di famiglia. «Sono state una serie di concause a portare a questa tragedia – dice il medico – La famiglia, rigidamente tradizionale con valori borghesi e cattolici e un padre assente per lavoro hanno amplificato il problema della signora Marzocchi. Così come la negazione del suo problema psichiatrico».
Problema che la famiglia quindi, avrebbe contribuito inconsapevolmente ad amplificare. Per questo, i domiciliari, sono inapplicabili. «In clinica sta recuperando molto – dice Ferracuti – Se fosse rimasta a Milano e avesse avuto una vita sociale normale, probabilmente, tutto questo non sarebbe successo».
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Redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l'ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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