GROSSETO. Una città, Grosseto, dove la marea della povertà si alza sempre di più, dove le famiglie in difficoltà aumentano, nell’indifferenza della politica e anche dei concittadini. Dove alcune piaghe, su tutte la ludopatia e la droga, la nuova moda fra i ragazzini è il crack, i terribili cristalli della cocaina, stanno minando la solidità di parti della società che, fino a qualche anno fa, sembravano esserne esenti.
C’è una Grosseto diversa, magari meno bellissima di come qualcuno ama raccontarla, che scorre come un fiume carsico sotto terra e che viene in superficie qua e là, scatenando indignazione e paura, ma solo per un attimo, quanto basta per qualche sterile dibattito violento e sgrammaticato sui social o per legittimare l’arrivo dell’esercito. Poi torna a scorrere sotto e fino all’affioramento successivo si fa finta che tutto vada bene.
Ma ci sono persone che con la marea che sale e con il fiume carsico ci si misurano ogni giorno. E che degli ultimi e degli invisibili si occupano da sempre, ne hanno fatto una ragione di vita. Lo fanno in silenzio, anche se ogni tanto avrebbero voglia di urlare per scuotere la città, prima che sia troppo tardi.
Una di queste persone è don Enzo Capitani, direttore della Caritas.
Lo incontriamo nel suo ufficio all’associazione l’Altra Città, solo il nome fa capire di cosa si occupa. Del resto degli ultimi, degli emarginati, dei poveri, dei tossicodipendenti, dei carcerati, don Enzo si occupa da sempre.
Da 12 anni è alla Caritas, da oltre 40 anni nel sociale.
Don Enzo, nel 1978 fu il confessore delle Brigate Rosse
Nel 1978, appena ordinato sacerdote, lui che era un giovane prete di provincia, è di Porto Santo Stefano, amante dei libri e dello studio, si trovò a Roma, in una piccola parrocchia.
Erano gli anni di piombo, il terrorismo attaccava lo Stato. Proprio in quell’anno fu rapito e ucciso Aldo Moro, il 16 marzo la strage e il rapimento in via Fani, il 9 maggio, 55 giorni dopo, il ritrovamento del corpo senza vita nella Renault 4 rossa in via Caetani.
Pochi giorni dopo furono eseguiti i primi arresti: in carcere finirono Enrico Triaca, un tipografo che s’era messo a disposizione di Mario Moretti, colui che uccise Moro dopo il “processo del popolo”, poi Valerio Morucci e Adriana Faranda.
E don Enzo Capitani, a lungo, fu il confessore dei primi uomini delle Brigate Rosse finiti in carcere.
«Io a quei fatti terribili mi ci sono trovato in mezzo – racconta -. La mia attività di sacerdote è iniziata nel confronto con queste persone, sia nelle carceri di Roma che in altre carceri d’Italia».
«Quando per la prima volta li incontrai, entrai personalmente in crisi, perché mi dicevo “ci deve essere un modo per dialogarci”. Mi rendevo conto che non c’era niente di quello che avevo studiato che mi sarebbe servito ad affrontare il problema. Il terrorismo nasceva allora, non c’era una chiave di lettura».
E quindi come si approcciò ai brigatisti?
«Mi sono accorto che dovevo fondare l’incontro solo sulle mie poche forze e su quelle del Padreterno. Vedersi per la prima volta a 25 anni attraverso un vetro molto spesso, in me ebbe un effetto devastante. Mi chiedevo “come si fa a usare la giustizia in modo diverso che non usando il kalashnikov?” A me che piaceva studiare, che pensavo di trovare una risposta nella teologia, quando mi sono trovato di fronte ai terroristi mi sono detto “queste sono persone, cosa posso fare?”. Ho lasciato i libri, che pure ancora amo e leggo ogni giorno, e ho cominciato ad avere un rapporto diverso con le persone».
Da Roma a Grosseto, a Barbanella
Poi don Enzo da Roma fu mandato a Grosseto, nel quartiere popolare di Barbanella.
«Un approccio che poi ho seguito anche quando sono stato mandato a Grosseto, a Barbanella, nella zona di San Giuseppe, fra via Statonia e via Clodia. Qui c’era una sacca di famiglie che, dall’alluvione del 1966, viveva ancora nelle baracche. Non hai idea del degrado che c’era, da tutti i punti di vista, consumo e spaccio di droga, era tutto focalizzato lì».
«Mi dicevo “non mi posso far carico di tutte le povertà, non sono il Padreterno, però Enzo, rifatti da una parte, basta con le chiacchiere, tipo la Chiesa deve stare con i poveri e cose simili”. Tutti predicavano, io cercavo di fare qualcosa».
La battaglia con la droga e con l’Aids
Doveva essere una battaglia quotidiana.
«La droga era alle porte di casa, mi rimboccavo le maniche. Perché poi incontrando la droga, incontravi di tutto. Penso alla mancanza di formazione e alle difficoltà della scuola, alla grande povertà, penso all’Aids, che allora era devastante. Cercavo di fare prevenzione, ma non con le conferenze, ma cercando di stare vicino alla scuola e alle famiglie. Del resto tutti parlano e danno la colpa a scuola e famiglia, ma in pochi si muovono per sostenerle. E lo dicono finché sono fuori dai problemi, ma che preghino il Padreterno che non gli capiti mai una cosa del genere, perché è un attimo passare dall’altra parte».
Grosseto ha pagato un prezzo altissimo all’Aids.
«Quando scoppiò la crisi dell’Aids, e Grosseto c’era nel mezzo con numeri estremi, io l’ho seguita fin dall’inizio. Il 95% delle persone che entravano al Ceis (Centro italiano di solidarietà, fondato da don Mario Picchi, si occupa di dipendenze, ndr) dopo fatto lo screening tornavano tutti con verdetto di sieropositività. In quegli anni, erano i primi ’90, quando uno era sieropositivo era Aids conclamato. È una malattia con una media di 12 anni di incubazione. Tanto che quasi tutte quelle persone oggi sono morte».
E come cercava di combatterlo?
«Mi ero inventato con Mario Toti (senese del Drago, ex primario di malattie infettive a Grosseto, ndr) una specie di hospice a casa mia. Avevo una grande sala in casa e ci avevo messo tre letti. E ho dato la possibilità a quei tempi a persone che potevano essere curate a casa, ma non avevano, per tanti buoni motivi il supporto familiare, di avere un’assistenza continua. Con l’aiuto del reparto che era nato allora».
«E poi sono morti, sono morti a casa mia. Permettere alle persone di terminare la propria vita in un ambiente familiare è il massimo che si può ottenere».
Anni a contatto con i malati, quindi.
«Te lo dico, perché qui c’è il tema della paura. Perché la paura dell’Aids era arrivata a bloccare tutto. Ma quando poi ti sei interessato, sai come viene trasmesso, quali sono gli atteggiamenti che devi avere, scopri che è una realtà di malattia come le altre. Tanto è vero che ora sono riusciti a cronicizzare l’Aids e oggi ci si convive. La paura se l’affronti, se conosci, la superi. È un po’ come il buio, quando accendi una luce sparisce. Ma se ti ostini a non accendere la luce o a non aspettare il giorno, vai poco lontano. E questo spiega tante cose anche attuali».
La Grosseto di oggi e la marea della povertà che avanza
Dagli anni ’70, ’80 e ’90 a oggi il passo è breve, il tempo è volato. Ma don Enzo ha continuato a fare le stesse cose di allora, dopo 46 di sacerdozio accanto agli altri. E i problemi non sono diminuiti, anzi.
«In questi ultimi anni, dopo il Covid in particolare, vedo una marea che avanza lenta ma costante sulla città. È acqua scura e inquinata. A mollo ci si sta male, ma siamo in mezzo al guado. Non sappiamo se andiamo avanti o torniamo indietro. Non abbiamo né la forza, né i mezzi per tirarci fuori da soli. Dobbiamo fare i conti anche con una situazione nazionale difficile. Siamo in un contesto in cui la situazione si aggrava».
Ci fa un esempio concreto?
«Sono da 12 anni alla Caritas. I primi anni mi arrivavano famiglie con bollette di 50-60 euro. Da dopo il Covid a oggi non vedo altro che bollette di 300-500 euro. Ma come possono farcela? Sembra che il meccanismo che abbiamo messo in moto, del libero mercato, della libera concorrenza, che tanto ci piace, ci stia schiacciando. E sarà sempre peggio se non mettiamo in opera dei puntelli necessari perché la giustizia sociale sia per tutti».
E i più fragili pagano il prezzo maggiore.
«Non hanno come difendersi, né strumenti, né fantasia. Sono persone singole e famiglie, soprattutto quando ci sono i minori. Tocco con mano la contraddizione della nostra realtà sociale. Fino a qualche anno fa i dati demografici di Grosseto erano in crescita, invece adesso siamo in calo. La popolazione è invecchiata, ed è inutile che diciamo che si devono fare i figlioli. Ma come li mantengono?»
Ma così si uccide la speranza.
«Adesso pecchiamo di sovranismo. L’Italia, i confini, gli stranieri, tutti temi dirompenti che spaccano in due la società civile di Grosseto. Ma ci si rende conto che al massimo fra 2-3 generazioni non ci sarà più questa “nazione”? Ci stiamo dando la zappa sui piedi. Se non ci mettiamo in testa che chi viene qui va integrato, è finita. Se non studiamo delle formule di integrazione, poi ci troviamo con stranieri di seconda generazione che non sono né carne né pesce. Perché non sono più stranieri, ma non sono italiani. Perché hanno la pelle scura e quindi, sicuramente, non sono italiani».
«Io sento discorsi come questi e rifletto: il futuro ce lo castriamo da noi nel momento in cui non permettiamo che questa gente faccia parte del nostro sistema. Questo è il dramma».
La ludopatia, le nuove droghe in città
Crescono i bisogni, ma le risposte sono spesso quelle sbagliate.
«Mi pare che crescendo i bisogni, stia crescendo la mentalità di affidarsi alla fortuna. Questo purtroppo è tipico dei paesi altamente poveri. E sta succedendo anche a Grosseto. Ci stiamo arrivando senza accorgersene. La ludopatia sta esplodendo in maniera drammatica. Nel giro dei primi tre mesi del 2024 ho ascoltato con colloqui e sto aiutando 10 persone. Sono tante. E sono nella morsa della ludopatia».
«E che si fa? Al di là delle dichiarazioni di facciata, poi cosa segue? Lo capisco che è una cosa altamente trasversale, come la droga, però credo che come istituzioni dovremmo metterci, non dico intorno a un tavolo, perché se ne fanno anche troppi e non servono a niente, ma rimboccarci le maniche per andare alla radice del problema».
E anche la droga sta tornando, anche l’eroina.
«No, adesso il vero dramma è il crack, i cristalli di cocaina che vengono fumati. I ragazzini lo usano. Si bruciano i neuroni del cervello. Proprio in questi giorni sto seguendo una ragazza, giovanissima, con figli. È stata ricoverata perché usava il crack».
Sono dipendenze diverse.
«Sono diverse perché alcune hanno un caprio espiatorio, altre no. Si dice “dagli all’untore”. “Tutti gli stranieri sono spacciatori”, anche se i numeri dicono altro. Sul gioco non c’è chi accusare, se non te stesso e la mania di grandezza che hai. Non si va a cercare il colpevole. E poi c’è il disinteresse, l’indifferenza».
«In tutta la provincia di Grosseto c’è solo un consigliere comunale, Massimo Borghi di Gavorrano, che da anni si impegna e lotta su questo fronte. È stato lui a denunciare che lo Stato sta dando il 5% del gioco d’azzardo, quello che loro definiscono “legale”, alle Regioni, per farci quello che vogliono. I profitti delle macchinette, invece, dovrebbero essere usati per combattere il fenomeno».
L’indifferenza della politica
Quindi c’è indifferenza politica su questa cosa?
«L’indifferenza politica è su tutto. Questo è il punto. Al di là dei discorsi sui principi, che lasciano il tempo che trovano. Se guardo gli annunci stampa, il sindaco opera e pontifica su tutto. Dopo il Padreterno viene lui, ma per fortuna il posto è occupato. La politica di qualunque parte sia si è dimenticata del bene comune. E qui si torna ad Aldo Moro e anche a Tangentopoli».
Perché c’è un collegamento con il caso Moro?
«Quei due fatti hanno segnato la fine della politica e ce li portiamo sempre dietro, come un eterno conflitto che non vogliamo pacificare. I conti, politicamente parlando, con questi due fatti epocali non ce li abbiamo ancora fatti».
Mi spieghi meglio.
«Se io e te siamo due persone intelligenti, si può essere anche sulle opposte sponde, però riusciremo sempre a parlarci ed a confrontarci. Ma se non siamo intelligenti, diventiamo assolutisti: io ho ragione, te stai zitto. E chi è più forte vince. Aldo Moro ed Enrico Berlinguer si parlavano. E parlavano anche con Almirante. Questo faceva paura ai brigatisti, non volevano il dialogo. Oggi il dialogo è scomparso dalla scena politica, da solo».
Capisco che la politica attuale non le piace.
«Oggi abbiamo dei politici che, poiché non hanno vissuto quei tempi, ma solo il dopo, non capiscono la forza del dialogo. Eppure sono quarantenni che dovrebbero avere la forza della gioventù. Pensa che i quarantenni di una politica seria hanno fatto la Costituzione. Ai nostri quarantenni non gliela farei riscrivere. Anche perché non serve, va benissimo quella che c’è».
Quale potrebbe essere una strada da percorrere?
«Se noi non abbiamo la forza, la mentalità, l’idea di tessere, non una rete come amano dire in tanti, perché ha i buchi, ma un vero e proprio tessuto di inclusione, continuiamo ad andare nella direzione sbagliata».
Anche fra la gente comune, comunque, c’è indifferenza.
«Noi siamo indifferenti al tessuto sociale. Non mi interessa come va Grosseto, solo come vado io. E il clima di violenza verbale che c’è sui social indica questo: profondo individualismo che ci porta a non tendere la mano. Non c’è neppure il tentativo di comprendere intellettualmente. E questo è segno di ignoranza, perché si ignora».
L’estrema povertà in città, i bivacchi in strada
Torniamo alla povertà, don Enzo. Sono sempre più i senza tetto, che dormono in strada.
«Lo so bene. I numeri aumentano. Io ho un progetto chiamato “Abitare la notte” in cui ho messo insieme La Ronda, Il Ceis, l’Altra Città, i Protestanti, associazione Isaia e Caritas: volontari che cinque sere alla settimana fanno il giro della città. Un equipaggio che porta qualcosa da mangiare e che parla con loro. E si rende conto di quanti sono, dove sono: provano a fare qualcosa».
Quindi una sorta di controllo del territorio.
«Certo, ma nel nome della solidarietà. Questo è un grosso obiettivo che ci siamo posti. E poi perché lasciare la notte in mano a bande più o meno simpatiche? Ci possono essere anche persone che attenzionano il territorio e danno una mano a chi ne ha bisogno. E poi c’è una differenza…».
Ci spieghi.
«Parlo della differenza fra il percepito e la realtà. Il percepito è fondato sulle nostre emozioni, del momento. Per cui se in questo momento ho paura, tutto intorno a me mi mette paura. Eppure i dati della prefettura parlano di numeri in calo dei reati. E ci ritroviamo con l’esercito in casa? A me aumenta l’ansia, altro che senso di sicurezza. È vero che non possono intervenire, e allora mi domando che ci stanno a fare, ma mi ricordano, ancora, quei giorni del delitto Moro. Abitavo a Roma e non potevo fare due passi che mi fermavano per i documenti con il mitra spianato. Ripeto, la paura si guarisce solo con la conoscenza».
Eppure, don Enzo, lei non molla.
«Sai perché non mollo? Perché lottare per gli ultimi mi mette di fronte alla vera storia dell’umanità. L’umanità è rappresentata da popoli che camminano. Ma popoli, non Granducato di Toscana. Se apriamo gli occhi, non ci allontaniamo dalla realtà locale, ma riusciamo a vedere oltre. Se non sappiamo indicare l’oltre, che è fatto di gesti, investimenti, permessi lavorativi, nuove opportunità di lavoro, una serie di attività coordinate per l’inclusione, la marea finirà per coprirci tutti, salendo dal sud del mondo».
Già, il sud del mondo.
«Un sud che è sempre più sud, purtroppo. Continuiamo a fare gli affari nostri sulla pelle di queste persone. Il Burkina Faso ha la stessa popolazione della Lombardia e risorse che potrebbero far stare bene non solo la propria popolazione, ma anche gli stati vicini, eppure è fra gli Stati più poveri al mondo»
«Noi invece che accompagnare la crescita di queste persone, di questi popoli, imponiamo la nostra realtà».
È come un cortocircuito.
«Non si può trattare gli altri con la logica dei rifiuti. In Italia i rifiuti non li vogliamo, nessuno li vuole, così si spediscono in Germania, pagando peraltro. E la Germania ci fa i soldi. Con i migranti stiamo facendo la stessa cosa: ora li “affittiamo” all’Albania, pagando. Nella sua drammaticità mi ci viene da sorridere: che differenza c’è fra la politica che facciamo di trattamento dei rifiuti e quella di trattamento dei migranti?»
«Non siamo capaci di prendere questa nazione in mano e di dargli un percorso. Si va avanti a spot, senza un disegno. Menomale non faccio il politico».
Don Enzo ci fa gli auguri di Pasqua?
«Sicuro, ce n’è proprio bisogno».
GLI AUGURI DI PASQUA DI DON ENZO
Dalla Proloco e da Banca Tema un aiuto economico a don Enzo
In occasione della Santa Pasqua, la Proloco di Grosseto con Banca Tema, conferma il proprio impegno a favore di chi versa in condizioni di bisogno, consegnando a don Enzo Capitani, come già nel 2023, un contributo economico per il pranzo di Pasqua e Pasquetta che la Caritas diocesana offrirà alle persone in condizioni di difficoltà.
«La solidarietà è un punto cardine della nostra associazione – dice il presidente della Proloco Andrea Bramerini – anche a dicembre scorso infatti, abbiamo sostenuto la Caritas per i pasti da distribuire a Natale e Santo Stefano».
«Con il consiglio ci siamo posti l’obbiettivo, per tutto il nostro mandato, di essere al fianco dei più fragili e di tutta la comunità. La Proloco, infatti, oltre a collaborare con la Caritas diocesana, continua ad organizzare serate benefiche il cui ricavato è devoluto a importanti organizzazioni cittadine per la realizzazione di progetti a favore di tutta la cittadinanza. Ci auguriamo che il nostro contributo si affianchi a quello di molti altri per donare un momento di serenità e un conforto a chi ne ha più bisogno».
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Direttore di MaremmaOggi. Dopo 30 anni di carta stampata ho capito che il presente (e il futuro) è nel digitale. Credo in MaremmaOggi come strumento per dare informazione di qualità. Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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