GROSSETO. La società era diventata un guscio vuoto e l’esercizio dell’attività impresa ormai era impossibile. Tanto da assumere le sembianze di «un’operazione di abbandono della nave che sta affondando».
Lo scrive proprio con questi termini, il giudice per l’udienza preliminare Adolfo Di Zenzo, he ha condannato due cugini, amministratori della Brizzi Escavatori srl e il liquidatore.
Andrea e Massimo Brizzi, difesi dall’avvocato Alessandro Oneto e Alessio Fontani, il liquidatore assistito dall’avvocata Isabella Geraci, sono stati condannati ciascuno a 4 anni di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Tutti e tre sono stati interdetti per 5 anni dai pubblici uffici e non potranno esercitare uffici direttivi in nessuna impresa per 10 anni.
L’impresa che commercializzava il materiale della cava
La Brizzi escavazioni srl ha una storia lunga decenni: costituita nel 1955 come società di fatto che si chiamava allora Fratelli Pieraccini, era nata per commercializzare il materiale estratto dalla cava e per trasportare l’inerte. Andrea e Massimo, amministratori della società, misero l’azienda in liquidazione nel 2015, affidandola a Fontani. Dall’anno precedente, infatti, lo stato d’insolvenza era diventato irreversibile.
Il liquidatore chiese l’ammissione al concordato preventivo che però fu respinto dal tribunale: nel 2020, fu dichiarato il fallimento e accertato lo stato passivo pari a oltre 10 milioni di euro.
Undici le ipotesi commesse dai due amministratori e dal liquidatore che hanno, secondo il giudice dell’udienza preliminare, accertato il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione di beni societari e per distrazione delle scritture contabili. Perché parte dei soldi che hanno creato il passivo della società – è stato ricostruito durante il processo – sono stati incassati dagli amministratori, quando la Brizzi Escavatori era già in forte crisi.
E nei 10 anni che hanno preceduto al fallimento, i libri e le scritture contabili sono state tenute in modo da rendere estremamente difficile la ricostruzione del patrimonio.
Rimborsi agli amministratori e finanziamenti ai soci
Dalle scritture contabili erano spariti tutti quei documenti che avrebbero permesso di ricostruire operazioni di storno e rimborso di crediti nei confronti degli amministratori e operazioni che riguardavano la società fallita e le altre intestate ai due cugini: occultamento delle operazioni di bancarotta dalle tracce documentali. «Proprio come l’assassino – scrive il giudice nel dispositivo di sentenza – che cancella le impronte digitali dalla scena del crimine».
Ma se di molte operazioni contestate ai cugini Brizzi e al liquidatore Fontani da parte della Procura non c’è traccia nei documenti, di altre invece, sono state trovate le prove. Come la prassi di coprire le perdite attraverso l’uso di finanziamenti dei soci alla società.
Finanziamenti infruttiferi e non investimenti nella società: «Il classico segnale – scrive il giudice Di Zenzo – di allarme della prossima e imminente bancarotta». Bancarotta che quindi i tre imputati sapevano si sarebbe concretizzata. Ma nonostante lo stato in cui versava la società, i tre avrebbero, dal 2014, «Avviato un’opera di sistematica spoliazione della stessa – si legge – finalizzata a far fuoriuscire dalla pancia della società i cespiti che potevano essere aggrediti dai creditori».
Autocarri, macchinari, escavatori: i beni strumentali dell’azienda sono stati venduti ma non un euro è andato ai creditori, mentre i tre amministratori si sono pagati compensi non giustificati per più di 100mila euro. Ma il libro delle assemblee dei soci, dove si sarebbe dovuta trovare la delibera che autorizzava questi pagamenti, era andato perso. Salvo poi, durante il processo, spuntare proprio quella delibera. «Trattasi di una copia – aggiunge il giudice – che ad avviso dello scrivente ha rilevanza zero».
I creditori non hanno potuto poi beneficiare nemmeno delle rimanenze di magazzino, ovvero del materiale di cava estratto messe a bilancio nel 2014 per 350.000 euro, diventati zero nel 2015.
Il caso della cava della Lena
C’è poi il caso della cava della Lena nella corposa documentazione finita sul tavolo del sostituto procuratore Carmine Nuzzo e del giudice Adolfo Di Zenzo. Ed è quello che riguarda la cava La Lena di Campagnatico, acquistata dalla Edilbrizzi srl, società partecipata della Brizzi Escavazioni, alla quale quest’ultima aveva dato denaro e prestato garanzie per l’acquisto, nonostante non avesse le autorizzazioni di scavo ed estrazione.
Mentre la Brizzi Escavazioni era già in liquidazione, nel 2010, veniva deliberato un aumento di capitale di 1 milione di euro e venivano anche rilasciate fideiussioni per 4 milioni e mezzo di euro, senza alcun corrispettivo per la società fallita.
Una volta acquistata la cava, veniva concessa in locazione onerosa alla società fallita. In questo modo, la cava che rappresentava un bene prezioso per i creditori, è stata tolta dal patrimonio di una società, la Brizzi Escavatori, che era sull’orlo del fallimento. Operazione fatta – sostiene il giudice – per frodare i creditori.
Capitolo a parte, quello che riguarda il pagamento dei tributi: dal 2011 al fallimento, i due cugini non hanno più pagato le imposte e le tasse erariali e previdenziali, tanto da maturare un’esposizione debitoria nei confronti dell’Erario di 1 milione e 844.786 euro.
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Redattrice di MaremmaOggi. Da bambina avevo un sogno, quello di soddisfare la mia curiosità. E l'ho realizzato facendo questo lavoro, quello della cronista, sulle pagine di MaremmaOggi Maremma Oggi il giornale on line della Maremma Toscana - #UniciComeLaMaremma
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